Intervista a Silvia Scaramuzza, giornalista freelance a Bruxelles
Per l’intervista al nostro Italian del mese di luglio siamo volati diretti al cuore dell’Europa, Bruxelles. Abbiamo incontrato per voi Silvia, 27 anni, originaria di Terni, silvia ha vissuto già a Roma, Genova, Coventry e New York, prima di stabilirsi aBruxelles, dove ormai vive e lavora come giornalista freelance.
Tra falsi-miti sulla capitale europea e mercato del lavoro all’estro, abbiamo chiacchierato con Silvia delle sue molteplici esperienze personali e lavorative, ma anche delle lezioni importanti che in questi anni ha potuto imparare confrontandosi con realtà differenti. Ne é venuta fuori una bella panormaica della sua vita da expat, ma non solo.
Curiosi? Beh, non c’é molto da attendere… Buona lettura!
Ciao Silvia! Iniziamo da te e dalla tua storia personale: sappiamo che ormai da un po’ di tempo sei stabile a Bruxelles, dove sei giornalista freelance per diversi siti e testate. Ma dove e quando è iniziata la tua storia da italians? E soprattutto: perché?
La mia storia da Italian è cominciata con un Erasmus in Inghilterra durante gli studi per conseguire la laurea magistrale. Avevo voglia di varcare nuovi orizzonti, scoprire culture diverse dalla mia e soprattutto vedere come si studia all’estero. C’erano tanti miti sull’università in Inghilterra e volevo andare a vedere di persona se erano veri o no. Per esempio, tanti studenti di ritorno dal Regno Unito dicevano che gli esami erano difficilissimi, ma non è così. In Italia siamo abituati a studiare migliaia di pagine per ogni esame, mentre nei Paesi anglofoni l’approccio è differente e improntato alla pratica. Agli studenti è assegnato un argomento, che va sviluppato in un saggio. Sei tu a dover scegliere le fonti da consultare e l’impostazione del testo. Questo ti dà un’ampia libertà e soprattutto ti consente di sviluppare una forte indipendenza.
Bruxelles non è la tua prima esperienza all’estero: ci sono state anche New York e Warwick, in Inghilterra. Cos’è che ti spinge a cambiare spesso casa? Potresti raccontarci quali sono le reali opportunità che hai potuto cogliere in questi Paesi e che Italia – forse – non avresti avuto?
A spingermi è il desiderio di misurarmi con esperienze nuove, muovendomi in contesti diversi per uscire dalla mia area di comfort. Bruxelles e New York sono città flessibili, a misura di un giovane. Sono anche molto competitive, ma le opportunità non mancano. Si conoscono persone che fanno i lavori più disparati, dall’analista specializzato in politiche di sicurezza e difesa al lobbista. Il contesto è dinamico e stimolante. In Italia, purtroppo, non è sempre così. I ritmi sembrano più lenti, anche se si lavora tanto, e sembra ci sia meno mobilità sociale.
Tantissimi giovani expat che approdano a Bruxelles sono sicuri di trovare l’Eldorado. Anche tu la vedi cosi, oppure ci sono miti da sfatare? Com’è la tua vita da italiana in Belgio?
È un mito da sfatare. Bruxelles non è l’Eldorado. Il mercato è molto competitivo. In Italia, se si guardano i numeri, sono pochissimi i giovani che svolgono un’esperienza all’estero durante gli studi, mentre qui ti confronti con persone che sanno almeno due lingue e che hanno già vissuto e lavorato in più Paesi. Sono arrivata a Bruxelles perché ho vinto una borsa Schuman per lavorare nell’ufficio stampa del Parlamento europeo. Ogni anno vengono selezionate circa 300 persone e si candidano in 4.000. Il primo giorno ci hanno chiesto quanti di noi avessero già fatto esperienze all’estero. Il 90% ha risposto di sì. Questo rende l’idea di quanto il mercato sia competitivo per chi vuole rimanere negli affari europei. Poi c’è Bruxelles, che è un’altra cosa. La città sembra divisa in due. Chi lavora nelle istituzioni o in tutto quello che ruota attorno ad esse vive in una sorta di bolla, con i propri luoghi di incontro e il proprio linguaggio.
Facciamo un passo indietro fino alla tua esperienza all’estero durante l’Erasmus. Avendo studiato sia in Italia che in UK, potresti aiutarci a fare un confronto tra i sistemi educativi e scolastici di questi due paesi? Aspetti positivi e negativi, ovviamente!
Un punto a favore per l’Italia: gli studenti hanno una preparazione solida e sono abituati ad affrontare gli orali, quindi sono in grado di spaziare e argomentare su vari temi. Un punto a favore dell’Inghilterra: si predilige la pratica sulla teoria. Nel Regno Unito, mentre studi, impari ad imparare. Gli esami sono scritti. I professori ti danno delle linee guida, ma poi spetta a te scegliere come muoverti. Anche le lezioni sono strutturate in modo diverso. Una volta a settimana, a seconda del corso, si fa una lezione di gruppo. Il professore lancia una domanda e gli studenti rispondono a turno. Il professore ha il ruolo di facilitatore. Il suo compito non è quello di giudicare, ma di stimolare il dibattito. Gli studenti devono usare le conoscenze sviluppate durante il corso e utilizzarle per argomentare le proprie idee, in modo tale da consolidare le competenze. Per quanto riguarda le infrastrutture, non c’è storia. Io ho studiato all’Università di Warwick, un polo di eccellenza anche dal punto di vista tecnologico. Ricordo che per un periodo mi sono ammalata e non sono potuta uscire per un po’. Ho studiato tutto online, grazie alle risorse messe a disposizione dalla biblioteca universitaria: libri, ricerche, saggi, tutto informatizzato. Prima di arrivare nel Regno Unito, avevo studiato solo sui libri. C’è da dire, però, che l’Università costa, e molto. La mia, se non avessi fatto l’Erasmus, sarebbe costata circa 10.000 euro l’anno.
Poi c’è stata anche New York, quel grande sogno americano unito alla tua passione di sempre: il giornalismo. È così diverso vivere e lavorare in America rispetto che in Italia? Mi riferisco ad orari, ritmi lavorativi, abitudini, opportunità, colleghi e rapporti umani…
L’America è davvero un altro mondo. A New York ti svegli la mattina con l’adrenalina, pieno di stimoli e di idee da mettere in pratica subito. L’ambiente professionale è totalmente diverso rispetto a tutte le città europee. C’è flessibilità, dinamismo, spazio per crescere e correre. Gli americani sono alla mano, amichevoli e gentili. Capita che completi sconosciuti si fermino a parlare per strada o in un bar di punto in bianco. A New York la gente è aperta e pronta a cogliere le opportunità ovunque esse si trovino. Ti faccio un esempio pratico. Per fare amicizia si usa molto la piattaforma Meetup. Ognuno può creare un gruppo e invitare gli altri utenti a unirsi. In Italia la piattaforma funziona poco, anche perché le persone sono più chiuse verso le novità. A New York, invece, dalla piattaforma nascono anche opportunità professionali. Ci sono, per esempio, i gruppi di incontro tra startup e investitori, tra fotografi e modelle, etc. È anche una città ricca di contraddizioni, con un tasso di povertà elevato, ma non per questo meno affascinante.
Da grande appassionata di politica europea, sappiamo che per un periodo hai lavorato anche nell’ufficio stampa del Parlamento EU a Bruxelles, occupandoti di esteri, difesa e sicurezza e diritti umani, oltre che della campagna elettorale in vista delle europee 2019. È stato un trampolino di lancio per te? Cosa porti dietro di questa esperienza?
È stato un trampolino di lancio sì. Ho lavorato in modo approfondito sulle politiche europee, vedendo come nascono i progetti di legge, come si accordano i gruppi politici e come i parlamentari votano. Ho seguito, in pratica, tutto il processo legislativo, sia nelle commissioni parlamentari che nella Plenaria. Ho trovato un ambiente di lavoro dinamico e dei colleghi preparati, sempre disponibili e pronti al confronto. Ogni ufficio è una micro-UE in scala ridotta. Tutti i Paesi sono rappresentati, per cui si lavora a contatto con nazionalità e culture differenti, che si portano dietro un diverso modo di lavorare e di approcciare i problemi. È un’esperienza che mi ha arricchito in modo profondo, grazie alla quale ora so dove voglio arrivare da qui a qualche anno.
Scrittura, giornalismo, televisione… Credo che tu lo sappia, ci sono tantissime persone che vorrebbero farne un lavoro vero e proprio, realizzando magari la propria aspirazione di vita. Partendo dalla tua esperienza, credi che sia possibile farlo in Italia o che sia necessario farsi la gavetta all’estero? Quali sono i problemi da affrontare in Italia?
Non è necessario fare la gavetta all’estero, ma è una possibilità. In Italia il sistema è tutto da riformare. Per ottenere uno stage nelle redazioni nazionali, spesso, devi fare la scuola di giornalismo, sostenendo dei costi che non sono alla portata di tutti. È difficile, anche se non impossibile, trovare un buono stage se fai un’università pubblica. C’è un tacito accordo tra le scuole di giornalismo e le redazioni, che prendono gli stagisti delle scuole, oltretutto, nella gran parte dei casi, gratuitamente visto che si tratta di tirocini curriculari. Nessuno ti dice queste cose quando ti iscrivi all’università. La formazione è necessaria, ma andare in una scuola di giornalismo non ti dà la garanzia di avere un contratto per ripagarti delle risorse versate e degli sforzi una volta concluso il percorso. In Italia, inoltre, il lavoro, in alcuni casi, è pagato poco. Ciò non toglie il fatto che con tanta tenacia, dedizione e passione si possa riuscire nel proprio obiettivo. La preparazione, e anche un pizzico di fortuna, fanno la differenza in questo lavoro.
Dopo aver vissuto in così tanti posti, se potessi, cosa cambieresti in Italia e in noi giovani italiani? Parlo di mentalità ma anche di competenze, o di atteggiamento in generale… quali credi siano i problemi maggiori da risolvere per fare in modo che i giovani non sentano più la necessità di andare altrove per realizzarsi?
Se avessi la bacchetta magica, nella testa degli italiani metterei l’apertura verso la novità. Serve più spazio per l’innovazione, ma per cambiare la struttura bisogna cambiare quello che c’è sotto. I giovani sentono la necessità di andarsene perché non trovano prospettive, o si sentono limitati. Anche quando lavorano, a volte, sentono che non c’è spazio per crescere, e quindi voltano pagina. Credo sia un bene, e anche un aspetto della nostra generazione. Vorremmo un posto stabile, ma la stabilità allo stesso tempo ci limita. Un ambiente con più offerte di lavoro, di sicuro, aiuterebbe.
Per concludere, una domanda di rito: quali sono i tuoi prossimi progetti? Hai in programma di tornare presto in Italia, sfruttando magari le tue competenze e il tuo talento accresciuto dalle molteplici realtà di vita conosciute, per migliorarla e aiutarla nella crescita?
Il mio progetto è quello di fare la giornalista freelance. È la strada più lastricata di ostacoli, ma forse anche la più divertente. Sicuramente, è quello che amo fare. Mi piacerebbe tornare a lavorare in un ufficio stampa istituzionale e mi sto preparando per questo. In Italia spero di tornare presto, ma sono pronta a tutto. Non disdegnerei l’idea di lavorare in qualche altra città, anche fuori dal Belgio. Se non ora, quando?